venerdì 12 aprile 2024

FRANCESCO MARIA MANCARELLA

SUONA I COLORI D'ISLANDA

(fonte Tgcom e foto Michele Giannone)

Le sinestesie in musica non sono rare. La musica contamina le altre arti, ascolti un colore, dipingi una melodia, vedi un suono. C’è chi studia a fondo questi effetti, come Francesco Maria Mancarella, giovane musicista leccese, 33 anni. Mancarella usa i colori per creare le sue composizioni al pianoforte, ed è quello che ha fatto pubblicando, a inizio 2024, la seconda parte di un lavoro concepito in Italia e realizzato in Islanda.  Il lavoro porta un titolo secco, Nord (per Sony Music Italia). Un disco con due lati, come un LP, dove le immagini risultano vivide: da una parte il freddo, la vita difficile di chi vive in un luogo che non fa sconti, la magia di terre ancora selvagge, dall’altro le sensazioni vissute nel grande Nord che inevitabilmente riportano l’autore a pensare alla sua comfort zone, a quel Salento che splende di caldo e di sole. Due luoghi bellissimi, due mondi completamente diversi. «Il mare del mio Salento mi riconduce al pensiero della vacanza, alla voglia di tuffarsi in quel blu, il mare dell’Islanda è scuro, temuto dai suoi abitanti. Eppure entrambi hanno il loro fascino, la loro ispirazione», mi racconta. Francesco è un pianista e un pittore. È affascinato dai colori della natura e della musica al punto d’aver creato un suo modo tutto suo di comporre che ha battezzato Il pianoforte che dipinge. Quest’anno ha in cantiere una mostra dove introdurrà, oltre alla vista e all’udito, anche il tatto «attraverso un software che aiuta a decodificare i colori sulle tele: toccando il colore questo emette una nota». Aggiunge: «Devo trovare la location giusta, c’è bisogno di molta calma per entrare in quel mondo, perché altrimenti le persone vedranno solo cerchi colorati e non ne capiranno il significato».

Francesco, perché proprio l’Islanda?

«L’aurora boreale è una meraviglia che ho sempre voluto vedere e, soprattutto, è il posto più a Nord d’Europa dove potermi spogliare di tutto quello che vedo nel mio solito orizzonte: non ci sono alberi, c’è una natura incontaminata, per me è stata una grande ispiratrice.

C’è qualcosa che lega il Salento all’Islanda?

«Per quanto possa sembrare incredibile sì, ed è il mare. Un mare che per me si è trasformato in qualcosa di nuovo, visto che sono abituato a vederlo come una fonte di relax. In Islanda invece è totalmente l’opposto. Nessun islandese fa il bagno in quel mare, hanno paura, lo venerano: quando si è abituati e temere qualcosa questa viene divinizzata. Tra le altre cose, utilizzo la mia musica popolare, negli altri dischi ho sempre inserito sempre un brano, lo faccio anche nei concerti, perché mi piace ricordare da dove vengo».

Facciamo una digressione sulla musica popolare prima di parlare del disco: dagli anni Sessanta in poi è andata morendo. Il fatto che tu la “frequenti”, come per fortuna fanno tanti altri artisti, fa ben sperare

«È fondamentale coltivarla perché è la nostra connotazione personale, dove cresciamo, da dove veniamo, dove arriviamo. Apro una parentesi: provengo da una delle più antiche famiglie di Lecce e del Salento, dentro di me c’è questa voglia di mostrare quello che la mia famiglia, la mia gente, ha fatto in questa terra. È vero che la musica popolare s’è persa nel corso del tempo perché s’è sempre pensato che all’estero ci siano cose migliori delle nostre. Per certi musicisti pugliesi che studiavano la musica classica e il jazz, a un tratto, suonare la musica popolare era un qualcosa di cui provare vergogna. Io la utilizzo per raccontare il vissuto di questa terra, come è il Blues per gli afroamericani. Parlando di jazz, il parallellismo è perfetto: i musicisti del Novecento lo disprezzavano perché avevano studiato musica classica (chiamavano fakers chi suonava il jazz), e invece oggi ci troviamo, dopo quasi un secolo, un pubblico d’élite, sia nella classica sia nel jazz, e in conservatorio si studiano entrambi. Come in alcuni conservatori si può studiare anche la musica popolare. A mio modo di vedere quest’ultima diventerà paritaria come il jazz».

La Puglia con La notte della Taranta ha iniziato, buona prima, in quest’operazione di ritrovo popolare…

«La notte della Taranta oggi che fa parte della musica pop, lo dimostrano gli ospiti della manifestazione, grandi nomi del pop nazionale. Però è un bell’evento perché si intinge di quel folklore, di quella musica popolare che popolare non lo è effettivamente, almeno io non la riconosco come tale, ma che però dà comunque modo a quelli che non l’hanno mai ascoltata di approcciarla».

A proposito di pop, hai fatto anche l’esperienza sanremese con Alessandra Amoroso…

«Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia di musicisti, mio padre lo è, come mio nonno, mio zio, mio fratello, per cui da sempre ho suonato musica pop. Nonostante abbia studiato la classica e il jazz, non ho mai denigrato questo genere, mi interessa, penso che, con il giusto peso lo si possa considerare alla stregua della classica e del jazz, con accezioni differenti. Se incontra il piacere del pubblico e i teatri vengono riempiti vuol dire che qualcosa di interessante ce l’ha. Il mio modo di lavorare con Alessandra per Sanremo è stato lo stesso di sempre, alla stregua della musica da film, della composizione jazz, con l’aggiunta di partecipare a una kermesse tra le più importanti d’Italia, che fa diventare tutto un po’ più difficile. È stata una delle esperienze più importanti della mia vita, uno dei sogni che avevo fin da bambino».

Tu la vedi da addetto ai lavori. Però trovo che le canzoni oggi siano fatte per un consumo minimo, veloce…

«Il vero problema è che il mercato, non solo quello della musica, è tutto usa e getta. Dalla mia generazione in giù c’è questa concezione, meglio avere tanto e non buono che avere quattro cose buone e basta. Di conseguenza questo modo di pensare si traduce nella cultura, nei libri che leggiamo, nella musica che ascoltiamo. Le persone che hanno un’intelligenza media di poco superiore riescono ad avere terreno fertile nella mediocrità generale». 

Però è molto più difficile emergere da questa palude…

«Sì, lo è, ma devi considerare quali sono i tuoi obiettivi. Il mio è quello di cercare di fare una musica che mi possa rappresentare. Non strizzo l’occhio allo streaming, mi interessa molto invece il rapporto con il pubblico, quando sali sul palcoscenico è come essere nudi, non puoi mentire: se una cosa la sai fare, bene, altrimenti… Se avessimo chiacchierato dieci anni fa quando avevo 23 anni, ti avrei probabilmente risposto diversamente. Oggi, che so dove voglio arrivare, è chiaro che cerco di scendere a compromessi con me stesso, consapevole che le politiche di business legate alla musica pretendono certe cose».

Veniamo a Nord, l’hai registrato tutto in Islanda, giusto?

«Sì, al Syrland Studio di Rejkiavík, come se fosse una sessione live. Come si faceva un tempo con i bozzetti preparatori per un disegno, avevo già alcune idee in testa, punti di riferimento da cui partire, che poi ho sviluppato completamente lì. Prima di registrare mi sono dedicato a un bellissimo tour di dieci giorni per osservare tutto quello che mi poteva interessare, inclusa l’ aurora boreale che ho avuto la fortuna di vedere solo il penultimo giorno prima di partire. Di questa esperienza mi è piaciuta l’introspezione che si è potuta creare. Non è stato un viaggio come gli altri, la natura ti aiuta a pensare, il niente che c’è intorno, gli agenti atmosferici ti portano a guardare la vita da un’altra prospettiva. Quindi sono entrato negli studi di registrazione dove, in un’unica sessione di 8/10 ore di registrazione, ho preso questi bozzetti ampliandoli con tutte le esperienze del viaggio. Sono contento del lavoro che è uscito, è proprio quello che volevo, spogliarlo di tutte le sovrastrutture presenti nei miei album precedenti, dando centralità solo alla melodia».

Sei un pianista?

«Sì assolutamente! Anche se non mi sono mai permesso di farlo in pubblico, strimpello batteria, basso e altri strumenti. Il piano è il mio strumento da sempre, a casa ho trovato quello. Non so perché mi sono sentito attratto e nemmeno perché mi sono ritrovato a fare questo mestiere. Mio padre ha suonato con tanti artisti come Fabio Concato, Fiorella Mannoia. Ascoltavo i suoi studi mentre si esercitava per i concerti, poi di nascosto prendevo le sue partiture tentando di leggerle. Al di là del conservatorio questa è stata la mia palestra, è come se avessi vissuto all’interno di una bolla sonora dove accadevano tante cose. Magari guardavo mio zio suonare il basso e imparavo, guardavo mio padre alle tastiere e lo ripetevo…».

Com’è vivere in una famiglia musicale?

«Tutti mi dicono che deve essere una cosa bellissima, io non ho avuto altre famiglie, quindi non posso fare un confronto! Sicuramente ho avuto un’infanzia molto bella, gli alti e bassi della vita legati al lavoro, perché quella del musicista è una professione che non ti dà mai una certezza,  però ti offre la possibilità di vivere esperienze che altrimenti non avrei potuto fare. Ho avuto la grande fortuna di avere dei vicini di casa che suonavano pure loro, quindi, non ci siamo mai dati fastidio a vicenda. In famiglia anche mia sorella e mio fratello suonano il pianoforte, viene suonato praticamente tutto il giorno, per noi è un compagno di vita».

Che musica ascolti?

«Un po’ di tutto, tento sempre di captare qualcosa che mi possa interessare. Passo da una parte all’altra, cerco di memorizzare passaggi che mi piacciono. Ascolto molto pianoforte, ho tantissimi dischi, di classica e di jazz, Bill Evans, Michel Petrucciani che adoro. Non ho grandissime preclusioni, l’unico genere che non ascolto è il Metal».

Come ti definisci?

«Un compositore. Se vogliamo aggiungere un genere in cui mi identifico, questo potrebbe essere il crossover, perché non rappresenta qualcosa di istantaneo, ma un passaggio tra musica contemporanea, musica classica e musica jazz, che insieme diventano un’altra cosa. Il brano che più evidenzia questo aspetto di Nord è Under the Light, parte come se fosse un Walzer di musica classica, ricorda Chopin, altro musicista che mi piace particolarmente, e a un certo punto inizia un’improvvisazione di chiara matrice jazz».

 

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