venerdì 29 aprile 2022

IL CORPO DEI GIOVANI ED I LORO DISAGI

"NON SANNO FARE NEANCHE UNA CAPOVOLTA"

a cura del Prof. Simone Di Gennaro (tratto da Orizzonte Scuola)

La fisicità, il rispetto del nostro corpo è un elemento che da tempo ha acquisito una rilevanza nella nostra società e che è diventato ancora più centrale dopo questi anni di privazioni legati alla crisi pandemica. Ma cosa rappresenta il corpo in particola modo per i ragazzi che crescono? Ne abbiamo parlato con il Professor Simone Di Gennaro, presidente dei corsi di laurea in scienze motorie dell’Università di Cassino e del Lazio Meridionale e autore del libro “Non sanno neanche fare la capovolta, Il corpo dei giovani e i loro disagi”.

Come cambia la consapevolezza del corpo nel tempo e qual è la concezione del corpo nei giovani del XXI secolo?

La modernità, ci insegna Foucault, inizia quando l’uomo si accorge di avere un corpo. A lungo l’uomo ha vissuto all’interno del suo corpo pur non conoscendone il funzionamento, non conosceva le leggi biologiche che lo regolano, da un certo punto di vista lo subiva. I primi tentativi di impossessarci del nostro corpo li abbiamo avuti nel momento in cui abbiamo cominciato a decorarlo, ad abbellirlo, a modificarlo. Successivamente, con l’aiuto della scienza, abbiamo avuto modo di conoscerlo a fondo, di conoscere i meccanismi che lo regolano, di curarlo, di modificarlo e, negli ultimi anni, con lo sviluppo della tecnologia, abbiamo avuto questa incredibile possibilità di moltiplicarlo. Il XXI secolo ha celebrato il trionfo del corpo. Se riflettiamo, nella nostra società tutto è corpo, sui media in particolare, ma anche nella religione, in quella cattolica in particolare che è una religione che si fonde sul corpo. Insomma, nella quotidianità siamo inondati da corpi ed abbiamo l’illusione di conoscerlo a fondo, di poterlo padroneggiare, di poterlo far nostro completamente. Come ci insegna Cartesio, che potremmo identificare come l’iniziatore di questa scissione tra mente e corpo, è più facile comprendere l’anima piuttosto che il corpo. C’è molto che ancora dobbiamo comprendere e con questo piccolo testo ho cercato di offrire un mio contributo alla comprensione del corpo avendo come punto di riferimento i giovani e i loro disagi.

Il corpo non è rappresentato solo dalla sua fisicità, ci spiega quali sono gli elementi che lo caratterizzano?

Il corpo di per sé ha una natura ambivalente, esso è natura e cultura. Natura perché risponde a tutta una serie di leggi biologiche, fisiologiche dell’accrescimento, ad esempio, ma è anche cultura, perché inondato da significati sociali e culturali. Essere donna in un contesto occidentale è diverso rispetto all’essere donna in un contesto africano, ad esempio, o in un altro tipo di contesto sociale o culturale. I significati e le attribuzioni culturali e sociali che vengono fatte al corpo cambiano a seconda del contesto all’interno del quale è inserito. Ma il corpo è anche individualità e collettività. Individualità perché la mia esistenza si fonda sul mio corpo, esisto perché ho il mio corpo, la mia identità è rappresentata dal mio corpo. Ma allo stesso tempo attraverso il corpo io entro all’interno della collettività, faccio parte di un gruppo. Quindi è apertura e chiusura. Chiusura perché attraverso il corpo riesco a fare una distinzione tra ciò che sono e gli altri, ma allo stesso tempo è apertura perché incontro l’altro, conosco l’altro, attraverso il mio corpo. Quindi il corpo è sempre e comunque un gioco di ambivalenze e questo, ovviamente, lo rende un elemento estremamente affascinante e anche di riflessione e approfondimento culturale. Nel testo noi abbiamo provato a rappresentarlo attraverso quattro dimensioni che provo a rappresentare brevemente: Una dimensione sociale e simbolica, una psichica, una sensoriale e una organica. Il corpo ha una dimensione sociale e simbolica per quello che dicevamo prima, è inserito all’interno di un contesto sociale e culturale che gli dà significati sociali e culturali, ma allo stesso tempo il corpo veicola dei significati sociali e culturali, ad esempio la mimica oppure tutti i significati simbolici che sono attribuiti al corpo. Se prendiamo in considerazione l’espressione “ti amo con tutto il mio cuore”, in questo caso riteniamo che all’interno del cuore ci sia il significato, il simbolismo dell’amore. Per non parlare di tutti i significati che sono legati alle parti del corpo: la mano è diversa dal punto di vista sociale e culturale dal seno, ad esempio, o ai fianchi, insomma sulle varie parti del copro ci sono tutta una serie di attribuzione di significati. Poi c’è una dimensione psichica, attraverso il corpo manifesto i miei moti interiori, c’è uno stretto legame tra ciò che vivo interiormente e quello che manifesto. Da un certo punto di vista è solo attraverso il corpo che prendono sostanza i miei pensieri, ma anche le mie sensazioni e i miei stati d’animo. L’ansia, da un certo punto di vista, esiste nel momento in cui trova una sua espressione attraverso il corpo, con tutto quello che ne consegue. Abbiamo, inoltre, una dimensione sensoriale che è legata, appunto, ai sensi. Attraverso i sensi entriamo in contatto con il mondo, lo conosciamo, si attua quel meccanismo di sensazione, percezione e conoscenza, quindi attraverso i sensi io conosco il mondo, entro in relazione con esso. Infine c’è la parte organica, che è quella tangibile, fatta di ossa, di muscoli, di organi, se vogliamo è la parte più fisica. Queste quattro dimensioni ci permettono di comprendere la complessità del corpo ed una volta compresa questa complessità ci permettono anche di capire in che modo il corpo entra in relazione con gli individui e con la società. Nel testo abbiamo provato ad applicare questo modello per comprendere il corpo dei giovani e le forme di disagio che loro stanno vivendo in questa società così complessa. La visione epigenetica ci ha dato consapevolezza del ruolo dell’ambiente sullo sviluppo della persona, quindi natura e cultura, genetica ed ambiente, sono gli elementi che influenzano lo sviluppo di ognuno di noi. Partendo da questa prospettiva lei parla di sindrome dei corpi multipli, ci spiega di cosa si tratta?

La fenomenologia, a partire da Husserl, Merleau-Ponty, Sartre e via dicendo, ha offerto una prospettiva diversa sul corpo, soprattutto nel momento in cui venne introdotta l’idea, tipica della cultura tedesca, della distinzione tra “Korper” e “Leib”, che sono due termini che non hanno un corrispettivo nella lingua italiana. Il “Korper” è la parte fisica, quella tangibile, quella, come dicevamo prima, organica, fatta di fasci muscolari eccetera. Il “Leib”, invece, è la rappresentazione che io ho del mio corpo, come io percepisco il mio corpo. Può sembrare una distinzione sottile, ma in realtà è molto profonda. Noi viviamo quotidianamente questa distinzione tra il “Korper” e il “Leib”, ad esempio quando ci capita di ascoltare la nostra voce registrata, che ovviamente è una rappresentazione del corpo, ma che non percepiamo come nostra perché abbiamo una percezione diversa della nostra voce. Oppure quando ci capita di fare un selfie, chi non li fa oggi, o di vedere delle foto e non ci riconosciamo, non ci sembra di essere venuti bene, non ci sentiamo così e ci viene la tentazione di rifare la foto. In realtà è questa dimensione fenomenologica tra il “Korper”, il corpo così com’è, e il “Leib”, il corpo così come lo percepisco. La tecnologia moderna ci offre una grande possibilità che è quella di veicolare il nostro corpo, la nostra esistenza, attraverso i social. Quindi sui social noi assistiamo ad una moltiplicazione dei corpi, i social sono una vetrina su cui vengono esposti milioni di corpi. Nella società della trasparenza noi cerchiamo di veicolare il nostro corpo attraverso foto, video e attraverso tutte le possibilità che ci vengono offerte. Il punto è che noi veicoliamo questi corpi avendo anche la possibilità di poterli modificare, di adattarli, ci crediamo dei demiurghi, da un certo punto di vista, quindi modifichiamo la nostra immagine, applichiamo filtri, possiamo cambiare il colore dei nostri capelli, la forma dei nostri occhi, perfino la forma di questi nostri corpi. Immaginiamo dei preadolescenti e degli adolescenti che sono immersi in queste possibilità, in questo campo di opportunità, possono modificare i propri corpi, veicolarli e, ad esempio, può accadere che sui social questi corpi alterati ottengano consenso e quindi diano gratificazione. Immaginiamo questo processo moltiplicato quotidianamente, per tanti corpi che vengono veicolati, si arriva a un punto che abbiamo definito di rottura per cui si ha una scissione tra il corpo reale, per come io sono nella realtà, nella vita tangibile, e il corpo virtuale, quello che rappresento, che veicolo attraverso i social. Un esempio di questa scissione l’abbiamo percepita con alcuni studi, svolti soprattutto negli Stati Uniti d’America, in cui hanno individuato una sindrome denominata “snapchat dismorfia”, un fenomeno che coinvolge soprattutto le preadolescenti che, ad un certo momento, decidono di ricorrere alla chirurgia estetica per avere un volto simile o uguale a quello che loro vedono attraverso i filtri che hanno applicato sui social. È un vero e proprio cambio di paradigma, perché è la volontà di voler portare il corpo virtuale nella vita reale, ma questo, ovviamente, crea tutta una serie di problemi perché una moltiplicazione di corpi virtuali provoca la moltiplicazione di corpi senza identità e un corpo senza identità porta ad un individuo senza identità. Senza il corpo che ci dà un’identità noi siamo degli individui senza fondamento, senza matrici di senso. Questo dualismo tra il corpo per come io sono e il corpo che io rappresento fa sì che si generino tutta una serie di disagi che portano a tutta una serie di conseguenze negative sui giovani.

Alla luce di quanto ci siamo detti finora, qual è il compito del nostro sistema educativo per proteggere e far sviluppare nel miglior modo possibile i corpi dei nostri allievi?

Le Breton ci dice che il corpo è un vettore semantico intendendo la possibilità di analizzare il corpo, comprenderlo, e sulla base di questa analisi, di questa comprensione, avere una rappresentazione di quelle che sono le dinamiche individuali e sociali. Lo abbiamo detto prima, il corpo è il centro della mia esistenza e quindi è il centro della mia individualità, ma allo stesso tempo, per via di quella natura ambivalente che abbiamo raccontato in precedenza, il corpo è anche oggetto di influenze di tipo sociale e culturale. Tutto quello che accade sul corpo rimanda all’individuo e alla società. Le Breton ci esorta ad analizzare il corpo nel suo essere vettore semantico affinché poi si possano comprendere quelle che sono le dinamiche individuali e sociali, una prospettiva molto interessante che abbiamo cercato di attuare all’interno di questo testo. Ma allo stesso tempo dobbiamo considerare il corpo anche come un vettore educativo, cioè attraverso il corpo e sul corpo posso inserire tutta una serie di interventi di carattere educativo che mi permettono di superare alcune delle criticità e dei disagi che vivono gli adolescenti. Ad esempio quando parliamo del senso di anomia o di indeterminatezza che caratterizza gli adolescenti, possiamo leggerla anche dal punto di vista del corpo, perché se non ho un corpo, ed uso un termine forte, “all’interno del quale” non mi sento a mio agio, ecco che perdo un punto di riferimento esistenziale fondamentale. Allora un intervento educativo che mi permette di acquisire una relazione proficua e positiva con il mio corpo e la mia corporeità, è una base fondamentale per un’esistenza più felice e appagante. Quello che dobbiamo fare è restituire corporeità agli individui, cioè centrarli nuovamente sulla loro dimensione corporea. Con questo, però, non sto affermando che la tecnologia sia in qualche modo dannosa o che sia un qualcosa che debba essere superata o evitata. La tecnologia ci ha permesso uno sviluppo sociale, anche democratico, piuttosto rilevante e dobbiamo fare in modo di convivere con essa. Il punto è che ad un certo momento dobbiamo definire dei confini oltre i quali non si può andare, perché comunque dobbiamo mantenere la nostra dimensione umana e la nostra dimensione corporea, quindi un altro elemento importante che dovremmo cercare di sviluppare nel breve, soprattutto con i dispositivi educativi che abbiamo a disposizione nella scuola ma anche al di fuori di essa, è quello di costruire un nuovo modo di relazionarsi con la tecnologia affinché questo connubio tra l’essere umano e l’essere tecnologico possa trovare un punto d’equilibrio.

Un’ultima domanda, nel titolo del suo libro lei pone l’accento sul fatto che i giovani di oggi “non sanno neanche fare la capovolta”, ci spiega perché questo semplice esercizio è così importante, tanto da essere inserito nel titolo, e cosa rappresenta?

Se vogliamo è stata anche una provocazione. Lo stimolo è partito dalla riflessione di come qualsiasi gesto che noi facciamo, qualsiasi movimento o attività che mettiamo in atto con il nostro corpo, è sì un aspetto legato alla nostra motricità, alle nostre capacità di saper svolgere, ad esempio in questo caso, una capovolta, ma è anche frutto di una propria identità e di un proprio vissuto. La capovolta, che noi consideriamo essere molto legata all’infanzia, a questa voglia di sperimentare dei bambini, la riteniamo quasi scontata che a un certo momento della nostra vita impariamo a farla. Ma in realtà ci siamo accorti che sempre meno c’è questa voglia di capovolgere il proprio corpo e quindi di affrontare dei gesti e dei movimenti che sono un po’ più complessi. Molti osservatori hanno affermato che questo è dovuto ad un impoverimento delle capacità motorie dei bambini, questo perché giocano meno, stanno meno all’aria aperta e hanno meno possibilità di sperimentazione. A questo ho provato ad aggiungere un ulteriore elemento che ci permetta di dire che non è solo una questione legata alla motricità, di capacità di movimento, ma è anche una dimensione esistenziale, perché per fare la capovolta in qualche modo bisogna avere la voglia di ribaltare il mondo, ho la necessità di sentirmi in equilibrio con il mio corpo tanto da portarlo a un disequilibrio, perché per fare la capovolta le mani devono andare verso il terreno e i piedi vanno verso l’alto, mi si ribalta completamente la prospettiva. Quindi per poterla realizzare devo sentirmi sicuro che il mio corpo mi sorregge e se non ho un rapporto fecondo, cioè se non mi sento in armonia con il mio corpo, questo semplice gesto, ma comunque complesso, tenderei a non farlo perché non mi sento sicuro nel mio habitat corporeo. Quindi il fatto di non fare la capovolta non è solo una questione motoria, ma anche un elemento di carattere esistenziale su cui dobbiamo riflettere.

 

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