(fonte Tgcom)
Il mondo del lavoro sta cambiando più in fretta di quanto le aziende riescano a stare al passo. A guidare la trasformazione ci sono l’intelligenza artificiale, la transizione verde, l’automazione, l’incertezza economica e un rimescolamento globale delle catene del valore. Tutto questo impone una parola chiave: reskilling, ovvero la riqualificazione delle competenze.
Il Future of jobs report 2025 del World Economic Forum lancia un messaggio chiaro: entro il 2030 il 59% della forza lavoro globale dovrà essere formata di nuovo. Un’esigenza epocale, che non riguarda solo i settori tecnologici, ma attraversa ogni professione. In alcuni casi i lavoratori potranno restare nel proprio ruolo (29%), in altri dovranno essere ricollocati (19%). Ma c’è anche un 11% destinato a non ricevere alcuna formazione, con un concreto rischio di esclusione dal mercato.
Le aziende lo sanno, ma non tutte agiscono Per il 63% dei datori di lavoro, il principale ostacolo all’innovazione è proprio il gap di competenze. Eppure solo la metà delle imprese prevede di ricollocare i propri dipendenti verso ruoli in crescita. Il 40% si prepara invece a ridurre il personale con competenze considerate obsolete. Un paradosso, se si considera che il 91% dei leader della formazione aziendale ritiene che l’apprendimento continuo sia oggi più importante che mai.
Il Workplace learning report 2025 di LinkedIn conferma che le aziende che investono in modo strutturato sullo sviluppo delle competenze hanno migliori performance, maggiore retention e una più alta capacità di attrarre talenti. Eppure, solo il 36% delle imprese ha un programma di sviluppo di carriera definito e misurabile. I limiti? Mancanza di tempo per i manager, scarsa personalizzazione, poco supporto concreto ai lavoratori.
Chi guida il cambiamento Alcuni grandi gruppi stanno già tracciando la strada: Amazon ha riqualificato oltre 200.000 dipendenti in 14 Paesi con programmi retribuiti; Ibm utilizza l’intelligenza artificiale per suggerire ai propri lavoratori i ruoli interni più compatibili con il loro profilo; Walmart ha costruito pipeline formative per trasformare addetti vendita in tecnici o autisti, rispondendo alla carenza di manodopera. E Siemens ha lanciato "MyGrowth Hub", un sistema interno che analizza i gap di competenze e propone percorsi personalizzati.
E l’Italia? Il ruolo del Pnrr Anche l’Italia prova a rispondere alla sfida dell'aggiornamento delle competenze. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha messo a disposizione 1,7 miliardi di euro per il Piano nuove competenze, oltre al rafforzamento della Garanzia occupabilità dei lavoratori (Gol), con l’obiettivo di coinvolgere 3 milioni di persone entro quest'anno. A questi si aggiunge il rilancio degli Its (Istituti tecnici superiori), ritenuti cruciali per colmare il divario tra domanda e offerta di competenze. Ma resta un interrogativo aperto: cosa succederà dopo il 2026, quando i fondi del Pnrr si esauriranno? Il rischio è che la trasformazione venga interrotta proprio mentre comincia a dare frutti.
Quali competenze mancano Il reskilling non è un beneficio accessorio: è la condizione per restare competitivi in un’economia che cambia. Le competenze più richieste nel 2025 sono un mix di tecnologia (intelligenza artificiale, big data, cybersecurity), capacità cognitive (pensiero critico, risoluzione di problemi) e soft skills (resilienza, leadership, comunicazione). Per i lavoratori significa prepararsi a cambiare mestiere più volte nell’arco della carriera. Per le imprese, costruire percorsi agili e interni di crescita. Per i governi, garantire strumenti permanenti e accessibili di formazione. La rivoluzione è iniziata, ma senza una strategia concreta e continuativa sul reskilling, il rischio è che a restare indietro non siano solo i lavoratori, ma interi sistemi economici.