(fonte Gazzetta dello Sport)
Vestiti non indossati da anni, scatoloni che occupano corridoi e intere stanze, giornali ingialliti accatastati in pile, oggetti rotti che "un giorno potrebbero servire", sacchetti, scontrini e soprammobili senza uno spazio in cui essere esposti: se per molti si tratta solo disordine, un'abitudine fastidiosa ma tutto sommato gestibile, per altre persone l’impossibilità di buttare via qualsiasi cosa diventa una gabbia dalla quale è impossibile liberarsi. Quando la casa si trasforma in un labirinto di oggetti e separarsi dalle cose provoca un’angoscia insopportabile, non si parla più di carattere o pigrizia, ma potremmo trovarci davanti alla disposofobia, o disturbo da accumulo.
La disposofobia è un disturbo psicologico vero e proprio, entrato nel dibattito pubblico grazie a reality show di successo come Sepolti in casa e a casi di cronaca riusciti a conquistare le prime pagine, che ancora oggi viene spesso frainteso o banalizzato. Gli esperti del portale Dottore ma è vero che…? della Fnomceo hanno deciso di fare chiarezza sulla questione, spiegando perché riconoscerlo è fondamentale e quali conseguenze concrete può avere sulla salute, sulla sicurezza e sulle relazioni di chi ne soffre.
Come si manifesta la disposofobia— Il disturbo da accumulo si manifesta con una difficoltà persistente a eliminare i propri beni, indipendentemente dal loro valore reale. Chi continua a conservare oggetti inutili, rovinati o sporchi lo fa perché l’idea di separarsene genera un profondo disagio emotivo che può arrivare a provocare attacchi di panico. Non è una semplice tendenza a tenere qualche ricordo, ma una sensazione irresistibile che "buttare sia sbagliato", pericoloso e doloroso. Da anni l’accumulo compulsivo è riconosciuto come patologia autonoma nel DSM-5, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, collocato nell’area dei disturbi ossessivo-compulsivi ma classificato a parte per le sue caratteristiche specifiche.
È fondamentale, dicono gli esperti, non confondere la disposofobia con altre forme di attaccamento agli oggetti. Il collezionismo, per esempio, è una raccolta intenzionale, selezionata e organizzata di categorie precise. E anche conservare alcuni beni appartenuti a una persona cara può essere una reazione emotiva normale. Nel disturbo da accumulo, invece, manca il controllo: le cose invadono ogni spazio, non esiste più una distinzione chiara tra ciò che è significativo e ciò che è puro ingombro.
Come si riconosce la disposofobia?— I criteri descritti dagli psichiatri statunitensi tracciano un quadro ricorrente: la persona prova una difficoltà insormontabile nel buttare, donare o vendere qualsiasi oggetto. Gli ambienti domestici si riempiono al punto da perdere la loro funzione: letti occupati da cumuli di vestiti o scatole, tavoli dove non si può più mangiare, lavandini e sanitari coperti, scale e corridoi ostruiti da pile instabili di cose, spesso persino rifiuti e materiali organici.
Chi soffre di questo disturbo trascorre molto tempo a spostare oggetti, cercare cose “importanti” in mezzo al caos o tentare, senza successo, di fare ordine. Il problema si riflette ovviamente anche sulle persone vicine: troppo spesso chi prova ad aiutare viene vissuto come una minaccia e questo può portare a profondi conflitti con familiari e vicini di casa, mentre nella mente dell’accumulatore ogni oggetto resta potenzialmente utile, prezioso, irripetibile. In alcune situazioni più gravi, l’accumulo riguarda anche gli animali: cani, gatti e altri animali domestici tenuti in numero e condizioni insostenibili, con grave sofferenza per loro e per il proprietario.
Disposofobia, un profilo ricorrente— Gli psicologi descrivono spesso un profilo ricorrente per chi soffre di disposofobia: le persone che tendono a vivere sole, con una vita sociale povera, grandi difficoltà nel prendere decisioni e nel gestire emozioni dolorose sono più portati a trasformare gli oggetti in un porto “sicuro”, un’estensione di sé stessi. E proprio perché lo spazio fisico viene percepito come indispensabile per sentirsi al riparo, spesso chi soffre di disposofobia non ha consapevolezza della gravità del problema, ma tende a minimizzare o a vergognarsene, rifiutando l’aiuto.
Ad oggi le cause della disposofobia non sono ancora del tutto chiare. I dati clinici suggeriscono spesso la presenza di eventi traumatici o perdite importanti non elaborate, come la morte di una persona cara o la perdita della casa. In circa un caso su tre il disturbo si associa a depressione, ansia o altri disturbi psichiatrici, incluso il disturbo ossessivo-compulsivo. I sintomi possono iniziare già in adolescenza, evolvendo lentamente nel tempo, e diventano più evidenti e gravi con l’avanzare dell’età se non vengono riconosciuti e trattati. Chi punta ad aiutare queste persone dovrebbe muoversi per gradi: l’obiettivo non è "svuotare la casa" dall’oggi al domani, ma aiutare le persone a recuperare sicurezza senza nascondersi dietro gli oggetti. Chi accumula oggetti non trattiene davvero le cose fisiche, ma ciò che vi proietta: ricordi, parti di sé, emozioni, la sensazione di avere ancora controllo. Nei casi più gravi i trattamenti farmacologici, in particolare gli antidepressivi, possono aiutare, ma è fondamentale ricorrere anche alla psicoterapia cognitivo-comportamentale specifica per il disturbo da accumulo.
