domenica 4 maggio 2025

IL RICORDO

IL GRANDE TORINO

Oggi Torino si ferma. Si ferma il cuore granata, si ferma la città, si ferma il tempo, per ricordare quel giorno che da 76 anni rappresenta una ferita mai rimarginata e insieme un orgoglio da tramandare: la tragedia di Superga. Era il 1949 quando l’aereo che riportava a casa la squadra del Grande Torino da Lisbona si schiantò sulla collina, cancellando in un istante la formazione che aveva incantato l’Italia. Nessun superstite. Solo dolore, e poi leggenda.

Quest’anno, il programma delle commemorazioni sarà intenso, ricco, coinvolgente. Una giornata intera per onorare gli Invincibili, coloro che da decenni non sono più semplici sportivi, ma simboli di coraggio, lealtà, talento e umanità. Non ci sarà, come inizialmente auspicato, l’inaugurazione del centro sportivo Robaldo, destinato alle giovanili del Toro, la futura “Coverciano granata”. I lavori non sono ancora terminati, e l’appuntamento con il taglio del nastro è rinviato. Ma il cuore dei tifosi sarà comunque pieno.

Il clou delle celebrazioni sarà domenica 4 maggio. Dalle ore 10, scatterà la marcia del popolo granata. Partenza da piazza Solferino, davanti al Bar Norman, luogo simbolico per generazioni di tifosi, e arrivo previsto in piazza Modena, ai piedi della collina di Superga. La marcia non sarà solo un momento di raccoglimento, ma anche un grido di protesta: i cuori granata vogliono un cambio di rotta, vogliono un Toro all’altezza del suo nome, della sua storia, della sua leggenda. Il riferimento è chiaro: Urbano Cairo non è più il presidente che molti tifosi desiderano.

Alle ore 12, al Cimitero Monumentale, si svolgerà la cerimonia ufficiale. Lì, accanto alla lapide dedicata ai Caduti, e nei sotterranei dove riposano Mazzola, Loik, Maroso, Gabetto, Ossola e altri eroi granata, ci sarà spazio per la memoria più intima. Saranno presenti i parenti dei giocatori, i vertici del club, i rappresentanti istituzionali, e soprattutto i tifosi. A celebrare il momento sarà don Riccardo Robella, cappellano granata, che benedirà le tombe e inviterà a riflettere sull’eredità umana e sportiva lasciata da quegli uomini straordinari. Perché il Grande Torino non è solo una squadra. È un’idea. Un modo di vivere. Un esempio che non tramonta.

Alle 17:03, ora esatta dell’impatto dell’aereo, il silenzio salirà lungo la collina e si poserà sulla Basilica di Superga. Là, dove tutto finì. Là, dove tutto ha avuto inizio. Dopo la messa, sarà Duván Zapata, capitano attuale del Torino FC, a leggere ad alta voce i nomi dei 31 caduti incisi nella lapide sul terrapieno. Ogni nome una vita, ogni nome un’emozione.

La giornata si concluderà con il teatro. Alle ore 21, al Teatro Superga di Nichelino, andrà in scena lo spettacolo Il Grande Torino: una cartolina da un Paese diverso, scritto da Gianfelice Facchetti e dal giornalista Marco Bonetto, con le musiche dal vivo degli Slide Pistons. Un viaggio tra parole, musica e sentimento, per raccontare ciò che non si può dimenticare. Perché il Grande Torino vive ogni volta che qualcuno ne pronuncia il nome. Ogni volta che un bambino riceve il racconto di quei campioni. Ogni volta che una bandiera granata sventola controvento.

Grande Torino, per sempre.

Alle 17:03 del 4 maggio 1949 un lampo improvviso, un'esplosione lontana, e poi il silenzio. L'aereo Fiat G.212 della compagnia ALI, partito da Lisbona e diretto a casa, si era schiantato contro il muraglione posteriore della Basilica di Superga. A bordo c’era il Grande Torino, la squadra più forte che l’Italia avesse mai conosciuto. Trentuno vite spezzate in un istante. Trentuno cuori che smettono di battere su quella collina, lasciando una nazione intera in lacrime.

Chi non c’era, non può capire davvero. Ma chiunque ami il calcio, chiunque abbia provato a rincorrere un sogno, può sentire ancora oggi l’eco di quel dolore. Perché il Grande Torino non era solo una squadra: era una speranza, era una promessa, era una bandiera di rinascita per un Paese uscito devastato dalla guerra e assetato di riscatto.

Non erano semplicemente bravi. Erano invincibili. E li chiamavano proprio così: Gli Invincibili. Cinque scudetti consecutivi. Praticamente l’intera Nazionale italiana era composta da giocatori del Toro. Quando nel 1947 si disputò Italia-Ungheria, il commissario tecnico scelse dieci giocatori granata su undici. Era un altro calcio, ma già allora si sentiva che si stava costruendo qualcosa di epocale. E lo era.

Ma quella squadra, quell’idea di squadra, non tornò mai a casa.

Quel giorno, stavano rientrando da Lisbona, dopo un’amichevole contro il Benfica organizzata in onore di Francisco Ferreira, capitano dei portoghesi e grande amico di Valentino Mazzola, il capitano granata. Un viaggio di cortesia, dicono, ma anche d’orgoglio. I granata avevano dimostrato al mondo la loro classe, la loro compattezza, la loro anima. E mentre volavano verso Torino, il maltempo si mise di mezzo. Nebbia fitta. Visibilità quasi nulla. Il pilota cercò un punto di riferimento, la basilica sembrò una collina come un’altra. In un attimo, fu la fine.

Valerio Bacigalupo, portiere di istinto e coraggio, il primo nome nella formazione. Aldo e Dino Ballarin, fratelli, inseparabili. Émile Bongiorni, francese di origine italiana, attaccante di razza. Eusebio Castigliano, piedi educati e testa da regista. Rubens Fadini, giovane promessa, con un futuro che avrebbe dovuto essere luminoso. Guglielmo Gabetto, detto “Gabe”, elegante e spietato sotto porta. Ruggero Grava, uno dei primi oriundi, talento puro. Giuseppe Grezar, friulano, generoso. Ezio Loik, cuore e polmoni del centrocampo. Virgilio Maroso, terzino di sinistra, moderno e instancabile. Danilo Martelli, combattente. Valentino Mazzola, il più grande. Capitano dentro e fuori dal campo. Il numero 10 che ogni bambino voleva essere. Romeo Menti, l’ala rapida, instancabile. Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti, Július Schubert, tutti campioni, tutti ragazzi.

Erano diciotto. Diciotto giocatori. E con loro, altri tredici uomini che completavano quella spedizione.

C’erano gli allenatori: Ernő Egri Erbstein, e Leslie Lievesley, menti moderne e carismatiche. C’era il massaggiatore, Ottavio Corina, e dirigenti come Arnaldo Agnisetta, Andrea Bonaiuti, Ippolito Civalleri. E poi c’erano i giornalisti: Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Luigi Cavallero de La Stampa, Renato Tosatti della Gazzetta del Popolo. Raccontavano, con penna e cuore, le gesta di quella squadra che ormai non era più solo del Toro, ma dell’Italia intera.

Infine, l’equipaggio: Pierluigi Meroni, Cesare Biancardi, Celestino D’Incà, Antonio Pangrazi. Anche loro parte di quella tragica pagina di storia.

Trentuno nomi. Trentuno anime. Trentuno assenze che da quel giorno si fanno sentire in ogni angolo di uno stadio, in ogni bandiera che sventola granata, in ogni coro che si alza dal cuore della curva Maratona.

Torino non fu più la stessa. Il calcio italiano non fu più lo stesso. Il 6 maggio 1949, durante i funerali, più di 500.000 persone si riversarono nelle strade del capoluogo piemontese. In un’Italia che ancora non aveva del tutto superato i lutti della guerra, si piangeva come fosse morto un figlio, un fratello, un padre. E forse era davvero così. Perché quegli uomini erano entrati nelle case e nei sogni di tutti. Erano simboli. E i simboli non si dimenticano.

Il campionato 1948-49 fu assegnato al Torino, senza discussioni. Le ultime quattro giornate furono giocate dalla formazione giovanile, che vinse tutte le partite. Non c’era bisogno di altro per capire cosa fosse rimasto in eredità: l’anima del Toro era più viva che mai.

Da allora, ogni anno, il 4 maggio, sulla collina di Superga si rinnova il rito. Si legge l’elenco dei nomi. Si recita una preghiera. Si canta. Si piange. Si abbracciano sconosciuti che parlano la stessa lingua del cuore. E si rinnova quel legame profondo, intimo, indissolubile. Quello tra il popolo granata e i suoi eroi.

Ma non è solo il Toro a ricordare. È tutto il calcio italiano che, ogni 4 maggio, guarda verso Superga con rispetto. Con gratitudine. Con dolore.

Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta. Lo scrisse Indro Montanelli il 7 maggio 1949. Una frase che è rimasta impressa nel marmo, nelle pagine dei giornali, nei cuori.

E davvero, il Grande Torino non è morto. È nei racconti dei nonni. È nelle fotografie in bianco e nero. È nei documentari, nei cori, nelle lacrime di chi sale a piedi fino alla basilica. È in ogni bambino che, senza sapere esattamente perché, sceglie di tifare per il Toro. È in ogni persona che crede che il calcio possa ancora essere qualcosa di più di uno spettacolo da consumare.

È una memoria collettiva. Una storia che ci appartiene.

E finché ci sarà qualcuno che il 4 maggio si fermerà a leggere quei nomi, uno a uno, il Grande Torino vivrà.

Perché certe luci, anche nella nebbia, non si spengono mai.


 

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