lunedì 5 maggio 2025

JOE BARBIERI

“BIG BANG” ED IL CORAGGIO DI CAMBIARE SEMZA PERDERE L’EMOZIONE 

Entrare nell’universo di Joe Barbieri, in fin dei conti, non è così difficile. Anche perché la forza gravitazionale è forte ascoltando i 10 brani che compongono Bing Bang, il suo ultimo lavoro uscito l’11 aprile scorso pubblicato dalla sua etichetta Microcosmo Dischi. Basta lasciarsi andare e «riconoscersi ed annusarsi» (parole tratte da una sua vecchia canzone Tacere/Parlare. 

Riconoscersi è un verbo che Barbieri usa spesso, sulla quale ha fondato la sua ultra trentennale carriera. Il riconoscersi ovviamente ha più valenze, implica un movimento spontaneo di avvicinamento, che poi diventa un’analisi psicologica più profonda. Toccare le corde giuste non vale solo per la chitarra che suona con quell’andare vellutato tipico della bossanova, ma soprattutto per le emozioni. In un’epoca dove di musica siamo sommersi ma di emozioni siamo in secca, l’attrazione verso il suo infinito melodico e letterario accogliente e stimolante diventa un miraggio possibile, un’oasi di raffinata emozione. Vale la pena far notare che il disco è stato registrato in presa diretta: «Sì, tra l’altro con molte cose analogiche, insomma è molto caldo», dice Joe. 

Quel titolo, Big Bang, apparentemente insolito nella discografia del musicista napoletano – questo è il suo settimo album di inediti, il 12esimo in studio – è una vera e propria esplosione che spara energia in tutte le galassie che compongono il suo cosmo musicale e poetico. Solo lui può permettersi di intitolare una canzone con un parola di due lettere, Sì: «È un vocabolo potente che apre tante porte, c’è dentro la forza di volontà, il desiderio, l’abbandonarsi all’ineluttabile, è… molto poetico», sostiene. 

Big Bang contiene tante galassie, scrivevo qualche riga più su. Insieme di stelle che racchiudono generi diversi, ma che sono lontane anni luce dai lavori “brasiliani”, passatemi il termine, che hanno fatto conoscere l’artista nel mondo. Se in Cosmonauta d’appartamento, album che ascolto ancora oggi e che ho messo tra i miei preferiti (cercate il brano che dà il titolo all’album con la partecipazione del bandolinista Hamilton de Hollanda), o in Maison Maravilha dove Barbieri canta Malegría, un fado appassionato con una spettacolare Omara Portuondo, l’emozionalità viene da una scrittura lieve ed estremamente raffinata, in Big Bang c’è, come da titolo, un’esplosione di creatività musicale. Passaggi jazz (ascoltarlo dal vivo sarà sicuramente un vero divertimento!), canzoni composte da pochi accordi sui quali ricamano il piano elettrico e la chitarra, scanditi da una sessione ritmica bella pronunciata, a ribadire il cambio di passo. Eppure, nonostante il primo stupore di questo bell’assemblaggio, la bravura di Joe sta nel mantenere la sua caratteristica cifra stilistica, la sua solida conoscenza musicale che non gli fa perdere la strada di quel dolce e disincantato andare che ha catturato i suoi affezionati ascoltatori.

Il 7 maggio, dal teatro Acacia di Napoli parte il tour di presentazione dell’album, che toccherà varie regioni italiane e proseguirà per molti mesi. Sul palco Joe si presenta con la formazione con cui suona dal 2021: Pietro Lussu alle tastiere, Daniele Sorrentino al basso e Bruno Marcozzi alla batteria.  

Big Bang è un titolo anomalo rispetto al tuo cammino artistico… Sembra una rottura con il passato!

«Lo trovi esagerato? Il big bang in effetti indica un nuovo inizio. Dopo tanti anni di musica, avevo il desiderio di cercare ingredienti differenti, altri suoni, forse in qualche modo anche una maniera diversa di scrivere proprio le canzoni. Volevo tentare di trovare nuove forme espressive…».

In tutto questo c’è stato un fattore scatenante?

«No, no. Sai, alla fine sono passati quasi cinque anni dall’ultimo album, è un lasso di tempo sufficiente per viaggiare abbastanza in profondità. Quindi, semplicemente, tutto è avvenuto in maniera naturale, molto lenta, senza alcuna fretta. Poi insomma, vederlo tutto raggruppato in un disco magari, ecco, salta all’occhio in modo più impattante».

L’astronomia è una passione che hai sempre avuto?

«Proprio così! Tanto è vero che, in realtà, questi segnali più o meno celati li ho già disseminati lungo il mio percorso artistico, a partire dal fatto che la mia casa discografica si chiama Microcosmo, da molto tempo. Dieci anni fa ho pubblicato un album che si intitolava Cosmonauta da appartamento… Questo guardare l’infinitamente grande per cercare l’infinitamente piccolo mi ha sempre incuriosito».

Ricordo benissimo quel tuo lavoro! Hai sempre questa felice intuizione nel cogliere non solo parole ma soprattutto note.

«Che siano cose che funzionino o meno, è un processo talmente altro rispetto a me che a volte faccio la conoscenza con ciò che ho scritto a distanza di tempo. Mi spiego: ogni tanto, riascoltando qualche canzone magari minore, che non suono spessissimo dal vivo, mi rendo conto che effettivamente sembrava scritta da qualcun altro. Devo dire che, in linea di massima, non mi strappo i capelli nel riscoprire quello che ho fatto».

Sei tra quegli artisti che hanno adottato un percorso molto rigoroso, non cedi alle mode, ti sei creato la tua casa discografica non a caso, perle rare in un mondo così semplificato, sovraccarico di musica per lo più priva d’emozioni. Una sicurezza per te, ma anche per chi ti segue?

«È una necessità espressiva che viene prima di ogni altra cosa. Non potrei fare diversamente. Alla fine mi rivolgo, senza volerlo, a chi per certi versi ha nel proprio sentire determinate frequenze, anche passando per gli addetti ai lavori, come te magari, che hanno il desiderio di sapere, di conoscere, o semplicemente del perché arriva quel tipo di vibrazione lì. Lo stesso succede con il pubblico in quest’epoca estremamente semplificata e sovraccarica. C’è bisogno, in qualunque posizione della catena ci si trovi, da chi la musica la scrive a chi la riceve, di sentirsi rappresentato e non tutto è un unico vestito. Certo, questa sensazione di gettare un sassolino in un oceano un po’ ti viene».

Dal primo brano, Le migliori intenzioni, all’ultimo, Moltiplicato zero, hai costruito un lavoro complesso che segue un alternarsi di sollecitazioni sonore perfettamente compatibili. C’è jazz, bossa, funk… Un viaggio intergalattico nell’animo umano, come lo è stato Cosmonauta d’appartamento. È un tuo tema ricorrente, perché?

«Hai ragione, tutto torna, anche le poesie di Costantino Kavafis in particolare modo Itaca, la mia preferita: custodisce il concetto che il viaggio è più importante della destinazione. Big Bang è proprio questo, il bisogno di abbandonare la propria comfort zone, per quanto possibile e per quanto giusto sia, per prendersi il rischio di trovare una traiettoria di cui non sospettavi l’esistenza e vedere dove questa ti conduce. Quindi, a 51 anni, di cui oltre trenta trascorsi a fare a musica da professionista, la curiosità di abbandonare il certo per l’incerto continua a essere una necessità per vedere, scoprire capire».

Prendi in gestione un sushi bar con me lo trovo un titolo fulminante! Come t’è venuto fuori?

«La prima strofa di questa canzone è l’unica dei brani di questo disco che non è stata composta negli ultimi tre anni, avrà 20, 25 anni. Ce l’avevo lì in attesa che arrivasse il disco giusto per completarla, e questo lavoro mi è sembrato quello opportuno. Tanto è vero che poi non ho fatto fatica a dargli uno sviluppo. Mentre stavo scrivendo l’album mi sono ricordato di lei, e il resto è arrivato veramente da solo. Ha molto a che fare con il mio carattere un po’ misantropo, ma disponibile a cambiare le cose, a guardare oltre, a cambiare anche vita. Chissà che cosa ci aspetta il domani».

Anche Poco mossi gli altri mari, è un brano che ti porta dentro, con quel funk a tutto basso…

«È una canzone che mi diverte proprio tanto. L’ho scritta con due accordi, tre se contiamo una variazione a un accordo base, non mi capita spesso di scrivere con pochi accordi e quando l’ho composta la pensavo già per il momento in cui l’avrei condivisa dal vivo, perché quello poi diventa l’attimo più divertente».

A proposito sul palco con chi ti accompagni?

«Con un quartetto che dà una copertura sufficiente per “rendere” questi brani. È di estrazione jazzistica, quindi pronto a virare e a variare».

Ho apprezzato molto la presenza costante del Fender Rhodes, strumento che amo particolarmente.

«A parte qualche strumento a corollario (vedi la fisarmonica in Moltiplicato Zero, ndr), il resto è veramente batteria, basso elettrico, Fender Rhodes e chitarra classica. In maniera un po’… “nazista” siamo rimasti fedeli a questo suono!».

Se dovessi dirmi in poche parole cosa significa questo disco per te?

«Volevo divertirmi, volevo darmi un pizzicotto e continuare a sentire che, nonostante tanta musica, avevo ancora il fegato di cambiare per trovare ancora me stesso».

Ultima domanda sulla cover dell’album, sfondo rosso una bolla di sapone e all’interno della bolla una galassia…

«Mi sembrava il giusto riassunto visuale: la bolla di sapone è il senso estremo della leggerezza, della fragilità. Dentro questa fragilità, però, spesso portiamo mondi, abbiamo la complessità di quello che all’apparenza può sembrare la cosa più semplice del mondo. Dentro, insomma, c’è molto altro. Quanto al rosso di fondo, è un colore che ho voluto fortemente, puoi facilmente dedurre tutti i i suoi significanti. L’essere appassionati, la vitalità, il sangue che scorre nelle vene. Questo è un disco di passione che a riprova di ciò, abbiamo stampato oltre che in digitale e in CD, anche in vinile. E devo dire che in vinile suona da Dio!».


 

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